venerdì 21 aprile 2017

the producer

Non ho voglia ne' tempo per scrivere ma mi è capitato questo racconto scritto da qualcun altro, mi è piaciuto molto anche se è lungo e ve lo propongo con la promessa di tornare presto.

 

 

 

cristianaeffe's o i diari dell'espiazione di Oliver Holly Boursier

49.I rockers della cripta – Mademoiselle Calais, Lulù e Psychokiller

Gli amanti dell’Amantes stazionano al fresco, fuori, a fumare in un dehor che non c’è e che allora improvvisano sotto i balconi, sotto le tende, dentro i davanzali, ovunque c’è posto.
Piove.
Piove in modo pigro, proprio solo a volere bagnare la città, una pioggia rilassata senza improvvisazioni né turbamenti o cambi di intensità, a dare l’idea che qualcosa possa cambiare.
Non cambia niente, come al solito. Sarà una notte umida, bagnata, liquida, fradicia quando sarà mattina e saremo fradici tutti.
Mademoiselle Calais riesce a sguinzagliarsi via da una cena di cui poco so e poco ho capito.
Non importa.
Manellorgia ci sta aspettando sotto la volta di mattoni e cantina del Diamond, e intuisco che Pau non ci sarà, Pau sarà l’unico maschietto in un compleanno di trans spettacolari, e se va tutto come penso sarà le petit hero della festa.
Non si può dire niente, a Pau.
-… Mademoiselle, è ora di ballare. Andiamo a ballare. C’è Lella.
-… mais oui, sì, andiamo a balare…
Non perde il vizio francese, la Calais, ma come potrebbe?

Una parata di facce e volti e corpi e cocktails e gonne e stivali e All Stars, ragazzini alle prime armi nel delirio notturno che stanno in piedi da soli e sbattono la loro freschezza dappertutto, occhi di fame di cose che ancora devono succedere, vestiti stirati e speranze di gloria, le prime architetture home-made di se stessi, sembra che si muovano con un taglierino in mano a definire le proprie sagome, le prime traiettorie, i propri desideri, entusiasti se offri loro una canna e stupiti di tutto, a guardare e guardarsi e fare mucchio nella diversità, tutti pronti a rispondere alle sirene dei ragazzacci di Wooden Theories.
Teorie legnose, me la racconto così, e sembrano l’intelaiatura che sorregge queste pagine prive di mira se non di accumulo.
Poi ci siamo noi, con niente in comune forse ma l’età e le albe e le scie alle nostre spalle, sì, quelle sì che sono ben delineate, abbiamo scie luminose e passaggi conosciuti e ricordi che sono già ricordi scolpiti, qualcosa di dato e affermato, perché ormai siamo in pista da tanto tempo, la mia morosa dice anche troppo, e allora ritrovi la banda di Capriglio con Boffa e la Marnie e Pippo, il giro di Lella e Manette, Dr No e i cani sciolti, che non colonizzano nessun posto ma vanno dappertutto, e dappertutto questa sera è il Diamond.
Manellorgia Rock. Basta il nome.

Bollori sparsi, già. Credo di avere applaudito e riso come un bambino quando viene sistemato lo striscione sopra il mixer, uno striscione nero su bianco scritto con i caratteri che di solito trovavo sui flyers del Prinz Eugen o di El Paso, caratteri punk sporchi brutti e cattivi, senza cura delle sbavature, e lo striscione recita: LIMONARE, e la prima persona che emerge è Lella, che mette i dischi ridendo.

Poco importa che nessuno si trovi a limonare, tranne una coppia che si schiaccia contro il muro, e i muri del Diamond sudano, rilasciano vapore e caldo e umidità, e nella sauna Mademoiselle Calais balla e sorride, occhi chiusi e occhi aperti, e fomento le danze fomentando le danze, più che altro fomento il fomento, braccia al cielo e braccia a terra a sollevare entusiasmo e bordello, a fare da iconografia a quello che sta succedendo, come se assecondare la musica potesse farla esplodere ancora di più, fino a riempirci e farci saltare sul soffitto.
Lella litiga con una piccola abat-jour color panna che non riesce a sistemare da nessuna parte, sempre in mezzo ai coglioni, cazzo, poi ci ritroviamo dopo mezz’ora uno di fronte all’altra, lei dietro il mixer io davanti al mixer, con facce strafottenti di sorriso e gli indici che fanno no no e si muovono come tergicristalli, a sottolineare il ritornello di The man who sold the world, “not me, not me, i never lost control”, e sembriamo due ragazzini che se la menano tra loro sapendo di quel che parlano, e quello di cui parlano è una confessione di tante robe che li riguardano da vicino e mentre si confessano si prendono per il culo.
Proprio così.
Noi non abbiamo mai perso il controllo. No no, non noi.
Pensa se sì, a questo punto suggerisce Ram.
Per arrivare a questo punto basta guardare due giorni dopo le fotografie della serata, dove sono fatto di gomma e acqua, al punto che la vorrei come santino in caso di morte, un bel ovale in pelle nera e dentro il mio viso con gli occhi chiusi, un sorriso che è un incisione nel pongo e zero parole da aggiungere.
Ricordatemi così.

Quando arriva Lulù on the bridge non è presto e non è tardi.
E’.

Dopo sono vodka&lemon, vodka sour, acqua, sguardi e parole che fanno ridere.
Allora poi si pensa alle solite cose ritrite.
Tsk-tsk.
Parliamo cantiamo urliamo facciamo bordello saltando, sfidandoci, sorreggendoci, sfiorandoci, ridendo, fermandoci in stupide gratuite scenette come in un teatro di varietà a nostro uso e consumo, le parole che vanno a destinazione stranamente, nel vapore e nel buio, con incursioni di delirio e sorrisi compulsivi, quasi che a conoscerci dovessimo partire dal caos, tante briciole buttate sul tavolo con la sicurezza che si comporranno da sole.
Fiducia a gò-gò.
-… e pensa, signorina, sono addirittura etero!
Boffa annuisce, Mademoiselle Calais scoppia a ridere e Lulù on the bridge si allontana di poco verso il muro con una mano sulla bocca a trattenere la vodka sour per poi urlare: sei proprio un coglione!, e suona come un atto di stima.

Arrivano le bolle di sapone, il futuro sono sempre i ragazzini, voglia di fare altro pensare altro agire altro.

La bolgia è data dal caldo umido della cantina extra-size che è il Diamond, dalle droghe e dall’alcool e dal ballare e dai sorrisi.
Sorrisi sparsi tra tutti, tra età che vanno dai diciotto ai cinquanta, sorrisi nei vestiti e negli occhi e dietro le lenti, sorrisi negli approcci e nel bordello, sorrisi che non ricordavo così potenti e positivi da un sacco di tempo, non nella notte spessa della città, che ha perso il suo sorriso da troppo tempo tra risse e lame e scazzi e merda.
Non è il posto.
E’ la serata.
Dove c’è Lella, stai bene.
Dove c’è Manette, anche.
Per non parlare dei Wooden e delle loro teorie che a me paiono di gomma.

Dice, Lulù, che si chiama Lulù.
Non posso non crederle.
Anche perché appena mi guarda e suggerisce a Mademoiselle Calais che sono uno dei Cure, di colpo arrivano i Cure.
-… hai visto, Lulù on the bridge?... dovrei farmi di anfetamine o roba, invece sono in un simil acido e mi sembra di essere in un museo e voi siete i quadri…
Di nuovo, la signorina ride.
La signorina è davvero Lulù.
Lo capisco dopo un poco che la chiamo Lulù on the bridge, e dopo che mi ha detto di chiamarsi Lulù.
Già, dice Lulù, che si chiama Lulù.
Che altro?
Lulù.
Lou-lou.
Loulou.
La prima, quella di Pabst, rivisitata e ridisegnata per l’occasione,dopo essere stata versata in una bacinella di sorrisi, vodka sour, rock’n’roll e una latta di vernice nera.
Ah, cazzo.
Dimenticavo.
Occhi di gatto che se ne va sui tetti e un sorriso che potrebbe sfigurarti.
Mi fido.

Mademoiselle Calais lo sa che devo metterci del romanzo.
Non basta mai quello che recupero, perché non riesco a recuperare altro. Non svelare i segreti, creare un altro senso, buttare speranza a voi che entrate, coltivare il senso di cullare un bambino, dare valore, walking on sunshine.

Poi, tanta paura, i colpi bassi delle droghe consumate e che durano sempre di più, da un poco di tempo a questa parte, persone che barcollano, occhi sparati, troppi maschi, huligani della droga, disperazione, confusione, acqua, ore legali che non si capiscono, Lella e Marnie e perché me ne sono andato senza un motivo e dai tombini arrivava Never be alone, urla, piazze, taxi, paranoia, in testa per tre giorni Psychokiller, qu’est ce que c’est? Fa fa fa fa fa fa fa.

A dire, una notte in compagnia di Mademoiselle Calis e Lulù on the bridge che se ne vanno abbracciate verso i Muri, strafottenti e cazzone, con un passo che tiene lontano gli stronzi.

50.Una postilla di Psychokiller ai rockers della cripta

Gli amanti dell’Amantes.
Già.
C’è questa ragazza di nome Ana, svedese dice la Calais, alta e biondo paglia e forse ubriaca, aspirante attrice e nel frattempo non si sa che cosa, che per tutta la notte è stata da recuperare da qualche parte, e ogni volta che la Calais se ne preoccupava, lei sbucava vicino a noi con un cocktail in mano.
Siamo apprensivi, cazzo. Deve essere una questione di età.
Poi succede che alle sei del mattino scendiamo da un taxi in piazza della Repubblica, sotto, vicino a corso Giulio e pioggia dappertutto, e ci avviamo verso una cosa che dovrebbe essere un ingresso di casa, e lei dice di prelevare, e non capisco più niente.
Tubi Innocenti e impalcature e sacchi di cemento e sabbia e assi di legno. Mattoni. Una porta che è un’uscita di sicurezza in metallo, con la stranezza che qui si entra, non si scappa.
Ma sto scappando dalla tristezza paranoica delle droghe prese, dal vuoto della città e dai cadaveri che strisciano lungo i muri, da quella cazzo di sensazione che richiede di essere accuditi e non siamo in grado di farlo per noi, quelle merde che capitano quando ti rendi conto che ogni cosa ha il sopravvento, e non riuscire a capire tutto questo alla mia età è un pacco.
Così.
Mi vuole uccidere.
E’ una putta.
E’ cortese di natura.
Non esiste e me la sto immaginando.
Non so un cazzo e non voglio un cazzo.
So che non voglio perdermi a piedi di domenica all’alba buia che non c’è, fuso e logorato e preda di qualunque cosa e rischi annessi, voglio solo asciugarmi, capire le briciole, tornare a casa, non tornare mai più da nessuna parte.
Dietro quell’ingresso maciullato da lavori in corso, legno, spazzatura, ferro potrei aspettarmi una crack-house o un Hotel Nigeria sovraffollato o un raduno di maschi di Timisoara, e invece si manifestano ampie scale e larghi gradini.
Sono fradicio, umido, allucinato, neanche stanco. Provato. In un museo la cui vista sta diventando insostenibile. Troppo presente. Troppo tutto.
Sono le porte a fotterti, quando le apri. Dietro questa, c’è un enorme ingresso che si perde in stanze e soggiorni e bagni e cucine, con porcellane e ceramiche e marmi, vasche da bagno di fine ‘800 e pomelli decorati a pennello, affreschi e quadri, soffitti che si vanno a confondere con l’infinito e piccole sculture, sedie in velluto e finestre alte quanto le puoi vedere, e ancora di più.
Non è colpa delle droghe.
Esiste tutto.
-… questa è la casa delle fiabe, e insieme è un tranello alla mia confusione?
Perle ai porci.
Vaffanculo. Non so quanto merito questa casa di un altro tempo, che concede svago al mio cervello e lo solletica con affreschi, tende, tappeti, luci, vestiti sparpagliati, quelle cose che ti accudiscono e ti fomentano insieme, una suggestione in più a credere a ciò che pensi e come lo pensi.
Sdraiato sul tappeto, sotto lo sguardo misericordioso di questa giovane sconosciuta che, povera, le può passare qualunque cosa per la testa, anche pensare che sia io a volerla uccidere e poi venderne il corpo a brandelli al Balòn tra poche ore, stanco, con allucinazioni in libera uscita, le mie, capisco che il soffitto non può tollerarmi oltre.
Arriverà un altro taxi a raccogliermi sotto la pioggia in piazza della Repubblica, luce di lampioni e distante da tutto il resto, bagnato e di nero vestito, tremante, gli occhi come fari a raccogliere ogni minimo dettaglio, un sorriso devastato che ricorda un taglio, stanco, il freddo della fine delle cose, subito dopo il funerale e i corvi che corvano, e poi, soprattutto, non imparerò mai a averne abbastanza.
La redenzione è morta, signorina. Ci resta espiare.